Il consenso informato in medicina come diritto fondamentale del paziente

di Teodoro Sinopoli*

Il consenso informato del paziente è un principio fondamentale nell’ambito della tutela della salute.

A partire dalla nota sentenza n. 435/08 della Corte Costituzionale, è stato infatti riconosciuto come un diritto fondamentale dell’individuo che trova fondamento costituzionale nell’art. 32 Cost. (“nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di leggeLa legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”), nell’art. 13 Cost., che garantisce l’inviolabilità della libertà personale intesa anche come libertà di decidere in ordine alla propria salute ed al proprio corpo e nell’art. 2 Cost., posto a tutela di tutti i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la sua personalità.

Si tratta dunque di un diritto costituzionalmente garantito della persona a non subire trattamenti sanitari ai quali non abbia preventivamente e consapevolmente acconsentito.

L’affermazione di tale diritto in ambito internazionale risale al Codice di Norimberga del 1947 (a seguito dell’apertura del processo ai medici nazisti).

Successivamente, la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ha stabilito, come regola generale, che un trattamento sanitario può essere effettuato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato.

Ulteriori riconoscimenti del diritto al consenso informato sono poi pervenuti dalla Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 1989 e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000.

In Italia, invece, una delle prime disposizioni, di natura ordinaria, facente riferimento al divieto di eseguire trattamenti sanitari contro la volontà del paziente è rinvenibile nella L. 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale e, più precisamente, all’art. 33.

Anche il Codice di deontologia medica del 2014, ha poi sancito, all’art. 35, l’obbligo per il medico di acquisire il consenso del paziente ed il divieto, in difetto, di intraprendere o proseguire procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici.

Più di recente, il legislatore italiano, dopo essere intervenuto in materia di responsabilità professionale medica con la Legge c.d. Gelli-Bianco (n. 24/2017), ha disciplinato il consenso informato con la Legge n. 219 del 22 dicembre 2017 (c.d. Legge sul biotestamento).

Nella predetta L. n. 219/2017 il consenso viene considerato come elemento essenziale della relazione di cura.

In particolare, tale Legge:

– anzitutto, ha inquadrato il consenso libero ed informato quale presupposto di legittimità dell’operato del medico, disponendo che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero ed informato della persona interessata, tranne nei casi espressamente previsti dalla legge;

– inoltre, ha previsto l’obbligo del medico di adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente, garantendo un’appropriata terapia del dolore;

– infine, ha introdotto la possibilità per il paziente di manifestare le DAT (disposizioni anticipate di trattamento), in vista di una futura incapacità di autodeterminarsi, e di realizzare con il medico una pianificazione condivisa delle cure.

Tralasciando, per ragioni di sinteticità, alcuni dei numerosi aspetti sui quali la L. 219/17 è intervenuta, per quanto qui di interesse, ci soffermiamo sul comma 3  dell’art. 1, che ha disciplinato il contenuto dell’obbligo informativo; in particolare,  in detto comma è stato espressamente sancito che ogni individuo “ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informato in modo completo, aggiornato e comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici ed ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.

E’ pertanto necessario che il sanitario fornisca al paziente – riteniamo per ogni singolo atto medico – un’informazione completa ed esauriente (quanto più possibile), oltre che specifica ed analitica, e che al medesimo paziente venga di fatto consentito di valutare consapevolmente, tra gli altri, tutti i rischi (prevedibili e non anomali) connessi al trattamento, ma anche tutte le possibili alternative.

Quanto invece alla forma del consenso informato, questo, a norma dell’art. 1, comma 4, deve essere acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente e documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che consentano di comunicare; in qualunque forma espresso, il consenso deve essere comunque inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.

La prova del consenso informato, alla luce della sopra riportata disposizione, potrà dunque essere fornita solo documentalmente, fermo restando che la prova testimoniale potrebbe comunque essere ammessa quanto meno per dimostrare l’avvenuta esplicazione al paziente del contenuto del modulo sottoscritto.

Ciò detto, con riguardo alle possibili conseguenze risarcitorie derivanti dalla violazione del consenso informato, vi è da chiarire che il diritto all’autoderminazione delle scelte terapeutiche del paziente è cosa ben diversa dal suo diritto alla salute (all’integrità psico-fisica).

Ciò vuol dire – come da oramai consolidato orientamento della giurisprudenza – che il consenso informato costituisce una prestazione diversa ed autonoma rispetto a quella relativa all’intervento sanitario, con la conseguenza che, anche in caso di intervento perfettamente eseguito secondo le regole dell’arte, la violazione dell’obbligo di informazione, precludendo al paziente la possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all’esecuzione dell’atto medico, è, di per sé, in astratto, risarcibile, purché da essa derivino conseguenze pregiudizievoli di apprezzabile gravità.

E, in tal caso, la prova del pregiudizio subito – che, a seconda dei casi, potrebbe anche solo consistere nel dimostrare che, se correttamente informato, il paziente non si sarebbe sottoposto all’intervento – graverà sul paziente medesimo.

Avvocato, membro Gruppo giuridico EUNOMIS*


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