Covid: illegittima la sospensione dal lavoro per assenza della vaccinazione obbligatoria, con discostamento dalla posizione della Consulta e dell’ISS (Tribunale di L’Aquila, sezione lavoro, sentenza del 13.9.2013, est. G. Cruciani)

di Giovanni Zampini*

 Non vi è alcuna norma di legge – né potrebbe mai esservi anche per lo sbarramento costituzionale del divieto di discriminazione ex art. 3 Cost. – che imponga un obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2 per prestare lavoro per lavoratori con una determinata fascia di età, ma solamente l’imposizione di un tale obbligo se e nei limiti in cui sia strumento di prevenzione dal contagio, ma i vaccini per Sars-Cov-19 in commercio non sono strumenti atti in alcun modo a prevenire il contagio.

Ci si intende quindi in particolar modo discostare da quanto sostenuto dalla Consulta, che richiama, prestandovi quindi fede, una affermazione dell’ISS, secondo cui «[l]a vaccinazione anti-COVID-19 costituisce una misura di prevenzione fondamentale per contenere la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2” ed «anche se l’efficacia vaccinale non è pari al l00%”.

È fatto notorio la inidoneità del vaccino in commercio a strumenti di prevenzione del contagio.

Tribunale di L’Aquila, sezione lavoro e previdenza, sentenza del 13.9.2013

(est. G. Cruciani)

[… omissis …]

Dichiara illegittima la sospensione dal lavoro del ricorrente a decorrere da [… Omissis…] con ogni conseguenza normativa ed economica;

Condanna parte resistente al pagamento a titolo di differenze retributive della somma di […Omissis…] oltre interessi e rivalutazione;

Condanna parte resistente al pagamento a titolo di danno biologico della somma di [… Omissis…] oltre interessi;

Condanna, altresì, la parte resistente al pagamento in favore del ricorrente delle spese di lite che liquida in [… Omissis…]

MOTIVI DELLA DECISIONE

Una premessa. Verrà valutata non la legittimità dell’obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2, bensì la legittimità, nel caso concreto, della sospensione dal lavoro per assenza della vaccinazione obbligatoria per l’ultracinquantenne ex art. 4-quinquies, c. 4, d.l. 44/2021, questo essendo il tema del decidere nel presente giudizio.

Ad una valutazione costituzionalmente orientata (ed anche letterale) non vi è alcuna norma di legge – né potrebbe mai esservi anche per lo sbarramento costituzionale del divieto di discriminazione ex art. 3 Cost. – che imponga un obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2 per prestare lavoro per lavoratori con una determinata fascia di età, ma solamente l’imposizione di un tale obbligo se e nei limiti in cui sia strumento di prevenzione dal contagio.

Invero, si consideri che lo Stato italiano si fonda sul lavoro (art. 1 Cost.) e su questo si fonda non solo la dignità professionale, ma anche la dignità personale dell’essere umano che vuole mantenersi con le proprie forze (dignità, limite invalicabile all’obbligatorietà del trattamento sanitario, quale il vaccino, di cui all’art. 32 Cost.).

Il reddito da lavoro costituisce per lo più il reddito di sussistenza, senza di esso si scivola nel degrado e nella dipendenza.

Solo ad una lettura superficiale (e comunque non costituzionalmente orientata) gli artt. 4, 4-bis e 4-ter, poi 4-quater e 4-quinquies d.l. n. 44/2021, per tutelare la salute pubblica, imporrebbero (per quanto qui rileva) l’obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2 a certe categorie di lavoratori e ai lavoratori dai 50 anni in su.

In realtà così non è, perché il dato letterale delle norme oltre che la Costituzione devono orientare il Giudice verso un’interpretazione che ancora l’obbligo vaccinale per certe categorie di lavoratori e i lavoratori ultracinquantenni alla sussistenza del presupposto della capacità preventiva dal contagio del vaccino.

In effetti, la ragione evidente per la quale si impone che il lavoratore sia vaccinato è che questi, nel luogo di lavoro, non possa essere così fonte di rischio per i colleghi (o per i terzi particolarmente esposti); poiché il lavoratore non vaccinato a differenza di quello vaccinato esporrebbe gli altri con i quali entra in contatto nei luoghi di lavoro al rischio di infezione Sars-CoV-2, il medesimo non deve essere presente nei luoghi di lavoro (mentre lo può il lavoratore vaccinato).

Questo è il fondamento e, quindi, il limite di applicazione di tali norme già espresso chiaramente nelle stesse: secondo l’interpretazione letterale la vaccinazione obbligatoria è quella volta a prevenire l’infezione (si ripete lo dice la norma “prevenzione”, nel corpo e nella rubrica).

Di più, è un’interpretazione costituzionalmente imposta perché è il fondamento che solo potrebbe (ma come detto non si valuterà la più ampia questione della costituzionalità dell’obbligo vaccinale anti Sars CoV-2) giustificare una discriminazione così rilevante.

Tale fondamento non è presente nel caso in esame: i vaccinati, rebus sic stantibus, ossia con i farmaci oggi a disposizione della popolazione italiana, come i non vaccinati, si infettano ed infettano gli altri.

Non vi è alcuna evidenza scientifica che abbia dimostrato che il vaccinato, con i prodotti attualmente in commercio, non si contagi e non contagi a sua volta. Di più, la realtà dei fatti ha dimostrato il contrario.

La comune esperienza di tutti (personale, familiare, della cerchia di conoscenti) conferma il dato evidente che, allo stato, chi non si è vaccinato può infettarsi e infettare come può infettarsi e infettare chi ha ricevuto una dose, due dosi, etc.

Evidenza scientifica e comune esperienza fanno assurgere tale dato nel contesto attuale – contagiosità dei vaccinati come dei non vaccinati – a fatto notorio ai sensi dell’art. 115, c.p.c. (il che esclude in radice la necessità o l’opportunità di svolgere una c.t.u. in sede processuale).

Allora è evidente che venuto meno il presupposto per il quale alcuni lavoratori possono entrare nei luoghi di lavoro ed altri no, la sospensione del ricorrente, giustificata dal fatto che non si sia vaccinato, è del tutto priva di fondamento.

Per completezza si osserva che un eventuale atto amministrativo che imponesse una siffatta discriminazione che, per quanto detto, non è prevista dalla norma primaria, sarebbe contra legem e andrebbe disapplicato.

Si ribadisce l’art. 4-quater, d.l. n. 44/2021 estende l’obbligo vaccinale agli ultracinquantenni “per la prevenzione dell’infezione”, non per limitare in tutto o in parte le conseguenze dell’infezione.

Quindi non si entra nel merito dell’efficacia o meno dei vaccini per la salute pubblica o della legittimità o meno dell’obbligo vaccinale, ma si evidenzia come l’interdizione all’accesso al luogo di lavoro (di cui all’art. 4 quinquies, d.l. n. 44/2021) per il lavoratore è volto ad evitare il contagio (non le sue conseguenze) ai suoi colleghi; ora, il lavoratore vaccinato, come quello non vaccinato, se si infetta ed infetta, non può godere di un trattamento diverso da quello non vaccinato, almeno sotto il profilo (che qui solo interessa) dell’accesso al lavoro.

Quanto alle sentenze della Corte Costituzionale che hanno analizzato alcune questioni di costituzionalità relative alla normativa emergenziale per contrastare il diffondersi dell’infezione da Sars-CoV-2, va premesso, innanzitutto, che le sentenze di inammissibilità e infondatezza, quali sono le mentovate pronunce della Consulta, non hanno alcun effetto vincolante, a livello interpretativo, per i giudici di merito.

L’unico effetto processuale di un provvedimento di rigetto dell’eccezione di illegittimità costituzionale è in effetti, quello che “l’eccezione può essere riproposta all’inizio di ogni grado ulteriore del processo” e quindi non nuovamente dallo stesso giudice rimettente nel corso del medesimo grado di giudizio (art 24, legge 11 marzo 1953, n. 87).

Peraltro, come noto, la funzione nomofilattica – tesa ad assicurare l’esatta osservanza della legge, l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale – spetta solo ed esclusivamente alla Corte di Cassazione e non già anche alla Corte Costituzionale (art. 65, comma 1, R.D. 30 gennaio 1941, n. 12).

Può peraltro osservarsi che nella sentenza n. 15/2023, la Corte Costituzionale ritiene non irragionevole le norme di introduzione dell’obbligo vaccinale e del “green pass ” in base all’argomentazione che “contrariamente all’assunto del giudice rimettente, gli stessi dati esposti nei rapporti dell’ISS menzionati nell’ordinanza di rimessione, lungi dall’evidenziare la inutilità dei vaccini, dimostrano come, soprattutto nella fase iniziale della campagna di vaccinazione, l’efficacia del vaccino – intesa quale riduzione percentuale del rischio rispetto ai non vaccinati – sia stata altamente significativa tanto nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2, quanto nell’evitare casi di malattia severa; e come tale efficacia sia aumentata in rapporto al completamento del ciclo vaccinale” e che “la scelta si è rivelata, altresì, ragionevolmente correlata al fine perseguito di ridurre la circolazione del virus attraverso la somministrazione dei vaccini” ritenendo dimostrato che “in una situazione caratterizzata da una rapidissima circolazione del virus, i vaccini fossero idonei a determinare una significativa riduzione di quella circolazione”, di talché l’imposizione dell’obbligo vaccinale “si connota quale misura sufficientemente validata sul piano scientifico”. In particolare, la Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 14/2023 e 15/2023, con pari argomentazioni sul punto, rileva: “Sull’efficacia della vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 si sofferma l’ISS, esponendo che «[l]a vaccinazione anti-COVID-19 costituisce una misura di prevenzione fondamentale per contenere la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2. Numerose evidenze scientifiche internazionali hanno dimostrato l’elevata efficacia dei vaccini anti-COVlD-19 disponibili ad oggi, sia nella popolazione generale sia in specifici sottogruppi di categorie a rischio, inclusi gli operatori sanitari» (pagine 2 e 3 della nota dell’ISS). Al di là della fisiologica eterogeneità delle risposte immunitarie dei singoli individui e della maggiore capacità della variante Omicron di eludere l’immunità rispetto alle varianti precedenti, viene attestato che «la protezione rimane elevata specialmente nei confronti della malattia severa o peggior esito» (pagina 3 della nota dell’ISS). L’ISS chiarisce, inoltre, che «anche se l’efficacia vaccinale non è pari al l00%, ma del resto nessun vaccino ha una tale efficacia, l’elevata circolazione del virus SARS-CoV-2 rende comunque rilevante la quota di casi prevenibile» (pagina 5 della nota dell’ISS)”. Ed ancora: “Alla luce dei dati sin qui ripercorsi, deve ritenersi che le autorità scientifiche attestino concordemente la sicurezza dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 oggetto di CMA e la loro efficacia nella riduzione della circolazione del virus […] appare evidente, dunque, in coerenza con il dato medico-scientifico che attesta la piena efficacia del vaccino e l’idoneità dell’obbligo vaccinale rispetto allo scopo di ridurre la circolazione del virus, la non irragionevolezza del ricorso ad esso” (sentenza n. 14/2023).

Orbene, questo Giudice intende discostarsi da tale interpretazione, rilevando che i vaccini per Sars Cov 19 in commercio non sono strumenti atti in alcun modo a prevenire il contagio. Qui non si discute, peraltro, come è evidente, della idoneità o meno dei vaccini a prevenire le forme acute della malattia, che è tutt’altra questione, non di interesse per il presente giudizio – bensì della capacità, o meglio della incapacità, di tali vaccini quale strumento di prevenzione del contagio.

Ci si intende quindi in particolar modo discostare da quanto sostenuto dalla Consulta, che richiama, prestandovi quindi fede, una affermazione dell’ISS, secondo cui «[l]a vaccinazione anti-COVID-19 costituisce una misura di prevenzione fondamentale per contenere la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2” ed «anche se l’efficacia vaccinale non è pari al l00%”.

Ed in effetti, l’idoneità dei vaccini attualmente in commercio a non venire contagiati e a non contagiare, e quindi quale strumento di prevenzione del contagio, non solo è chiaramente smentita dalla realtà dei fatti conosciuta da tutti (realtà toccata con mano, senza necessità di particolari conoscenze mediche: ad un soggetto viene somministrato il vaccino e poco dopo gli viene diagnosticata l’infezione da SARS-CoV-2) ma dalle stesse case produttrici dei vaccini.

È noto che il portavoce del responsabile della Pfizer (principale vaccino utilizzato in Italia) abbia dichiarato davanti al Parlamento Europeo che nessuno studio era stato condotto sulla capacità del vaccino di impedire il contagio, non essendo quello il fine del prodotto in vendita, quanto piuttosto quello di contrastare gli effetti dannosi dell’infezione.

Riprova ne è che le indicazioni terapeutiche presenti nel foglio illustrativo dei vaccini in commercio – quale il Comirnaty sviluppato dalla Pfizer – non riportano quale effetto del vaccino quello di prevenire l’infezione da Sars-CoV-2, bensì quello di limitare gli effetti dannosi della malattia Covid-19: “Comirnaty è un vaccino utilizzato per la prevenzione di COVID-19, malattia causata da SARS-CoV-2”, specificando peraltro che “Comirnaty potrebbe non proteggere completamente tutti coloro che lo ricevono, e la durata della protezione non è nota” (foglietto illustrativo reperibile sul sito web istituzionale dell’AIFA).

Dalla notorietà del fatto discende, peraltro, come già detto, anche la non necessità o opportunità di ordinare alcun tipo di accertamento peritale sul punto.

Piuttosto, l’audizione di esperti di chiara fama andrebbe di converso disposta in tutti quei casi in cui l’evidenza del fatto notorio venisse messa in discussione, non bastando certamente, al riguardo, apodittici richiami alle prese di posizione delle “autorità istituzionali nazionali ed europee, preposte al settore” – come invece si fa nelle già citate sentenze della Corte Costituzionale (vedasi art. 17 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale, approvate con delibera della Corte in sede non giurisdizionale del 22 luglio 2021 e successive modificazioni).

Nel caso che ci occupa, in affetti, questo giudice ritiene assolutamente non provata l’efficacia vaccinale quale strumento di prevenzione del contagio, risultando quale fatto notorio – fatto che sulla base della comune esperienza può considerarsi indubitabile ed incontestabile in quanto incontrovertibilmente emergente dal naturale accadimento dei fatti (id quod plerumque accidit) – che i soggetti vaccinati possano contrarre e trasmettere contagio e che di conseguenza, dal punto di vista epidemiologico, vaccinati e non vaccinati, vanno necessariamente trattati come soggetti tra loro sostanzialmente equivalenti.

Esiste un indirizzo giurisprudenziale di merito che ha qualificato come fatto notorio la inidoneità del vaccini in commercio a strumenti di prevenzione del contagio, trattandosi di un fatto che appartiene al normale patrimonio di conoscenze della comunità sociale, in un dato tempo e in un dato luogo, e che può essere, perciò, conosciuto, nella sua distinta identità storica, dal giudice senza la necessità di uno specifico accertamento, escludendo la necessità di ulteriori verifiche in punto di prova.

A mero titolo di esempio si riporta il seguente passaggio: “i contagi avvengano comunque e non si sono mai interrotti, nonostante la campagna vaccinale pluriennale; ciò è tanto diffuso e conosciuto nella percezione comune di questo momento storico da essere fatto notorio, perché tutti sanno che i vaccini non impediscono il contagio; dunque vaccinati e non vaccinati sono vettori virali indistintamente; trovandosi in situazioni identiche non è pensabile un trattamento discriminatorio dei non vaccinati” (Tribunale Ordinario di Firenze, Seconda Sezione Civile, ordinanza del 31 ottobre 2022 divenuta definitiva non essendo stata reclamata).

In conclusione, deve essere dichiarata illegittima la sospensione dal lavoro operata dalla parte resistente [… Omissis…] con ogni conseguenza normativa ed economica. [… Omissis…]

Parte ricorrente chiede anche il pagamento di un danno biologico temporaneo [… Omissis…]. Ora, la documentazione medica in atti [… Omissis…] prova tale danno legato alla sospensione dal lavoro.

Invero, tale sospensione, senza alcun fondamento per quanto detto, per il suo grave connotato sia in termini di eliminazione della fonte di sostentamento sia in termini discriminatori rispetto ai colleghi che hanno continuato a lavorare, giustifica il forte stress psicologico.

Alla luce dell’art. 5, legge n. 57/2001, tale danno può essere quantificato in € [… Omissis…]. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico della parte resistente secondo la regola generale della soccombenza.

[… Omissis…]

 * * *

 IL COMMENTO

Con questa coraggiosa sentenza il Tribunale di l’Aquila apre una significativa breccia nel muro della narrazione dominante (avallata dalla giurisprudenza costituzionale: cfr. sentenze nn. 14, 15, 16 e, da ultimo n. 185 del 2023), secondo cui l’imposizione dell’obbligo vaccinale anti Sars-Cov-2 si sarebbe rivelato, nella recente pandemia, assolutamente lecito e indispensabile, al punto da sacrificarvi qualsiasi altro diritto costituzionalmente tutelato, fra cui – per quanto qui interessa – quello al lavoro (art. 4 Cost.) e ad una retribuzione adeguata (art, 36 Cost.).

Si ricorda che la Consulta, nelle sentenze citate, ha ritenuto sacrificabili sull’altare dell’“interesse della collettività” di cui all’art. 32 Cost. persino il diritto individuale alla salute e all’integrità psico-fisica, che ora può quindi essere legittimamente leso a causa dei gravi effetti collaterali di farmaci da assumersi obbligatoriamente in base alla legge. La questione è stata affrontata, in pratica, con le stesse logiche dell’esproprio, come se i diritti citati degradassero o si affievolissero, al pari della proprietà e dei diritti reali, ad “interesse legittimo”, a fronte dell’esercizio d’un pubblico potere indirizzato alla cura dell’interesse generale.

Eppure la Costituzione condiziona l’introduzione dell’obbligo vaccinale, oltre che nella fonte (la “legge”), anche nella modalità, in quanto “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” (art. 32, comma 2, Cost.). Si ricorda, poi, che il diritto alla vita ed alla integrità psico-fisica, è solennemente proclamato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici nonché nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Tale diritto si inscrive quindi fra i “diritti inviolabili della persona” (Corte cost. n. 54/1979; Corte cost. n. 223/1996), fra quei diritti, cioè, “che occupano nell’ordinamento una posizione privilegiata in quanto appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (Corte cost. n. 1146/1988; Corte cost. n. 35/1997). Il diritto alla vita ed alla integrità psico-fisica appare, pertanto, un valore non negoziabile, mai “sacrificabile” o “comprimibile” o “bilanciabile”, anche perché “i principî supremi dell’ordinamento costituzionale”, se hanno una valenza superiore rispetto persino alle altre norme o leggi di rango costituzionale”, non avrebbero potuto rivelarsi cedevoli di fronte a contingenti esigenze di politica sanitaria.

Per quanto attiene, poi, agli aspetti più strettamente giuslavoristici, la Corte costituzionale non ha rilevato alcun contrasto nemmeno tra il citato art. 32, comma 2, Cost. e le modalità sanzionatorie dell’obbligo vaccinale, che conducono alla sospensione – immediata, totale e potenzialmente sine die – di quella “retribuzione che deve presumersi necessaria a condurre una vita libera e dignitosa” ai sensi dell’art. 36 Cost. per i non vaccinati non si è ritenuto necessario neppure il conforto d’una misura di carattere assistenziale, che assicuri temporaneamente gli assegni alimentari o comunque una somma sufficiente a soddisfare un livello minimo di bisogno quotidiano (come, ad esempio, quelle previste, in caso di sospensione di natura disciplinare, nel pubblico impiego dall’art. 82 del d.p.r. n. 3/1957 o dall’art. 500 del d.lgs. n. 297/1994 per il personale scolastico).

È opportuno qui ricordare il recente monito della Consulta, la quale ha ritenuto costituzionalmente legittimo il blocco degli sfratti in quanto misura di carattere intrinsecamente temporaneo, destinata ad esaurirsi entro il 31 dicembre 2021, “senza possibilità di ulteriore proroga, avendo la compressione del diritto di proprietà raggiunto il limite massimo di tollerabilità, pur considerando la sua funzione sociale” di cui all’art. 42, comma 2, Cost.” (Corte cost. n. 213/2021). Sulla stessa linea si pongono le motivazioni di quella nota sentenza che, sebbene tanto gravemente incisiva sul diritto di libertà personale, riconosceva “pur in regime di emergenza”, la non giustificabilità “d’un troppo rilevante prolungamento dei termini di scadenza della carcerazione preventiva, tale da condurre verso una sostanziale vanificazione della garanzia” (Corte cost. n. 15/1982).

Insomma: l’annullamento dei diritti individuali non dovrebbe durare all’infinito. Pare difficile sostenere che ciò che vale per il diritto di proprietà e per il diritto alla libertà personale non possa valere pure per il diritto al lavoro, sui cui la nostra Repubblica è enfaticamente fondata.

A fronte di questo cupo scenario giurisprudenziale, il Tribunale abruzzese ricostruisce, invece, la ragionevolezza dell’obbligo vaccinale negli ambienti di lavoro “sul presupposto della capacità preventiva dal contagio del vaccino” (e dunque sulla sua efficacia immunizzante). Ciò in quanto “la ragione evidente per la quale si impone che il lavoratore sia vaccinato è che questi, nel luogo di lavoro, non possa essere […] fonte di rischio per i colleghi o per i terzi particolarmente esposti”.

Osserva condivisibilmente il giudice che “il fondamento e, quindi, il limite di applicazione” dell’obbligo in questione è già contemplato “chiaramente” nelle stesse norme che lo disciplinano, le quali hanno la espressa finalità di “prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2” (art. 4, comma 1, d.l. n. 44 del 2021) e non per limitare in tutto o in parte le conseguenze dell’infezione.

Interessante notare che nella sentenza si considera “fatto notorio” ai sensi dell’art. 115 c.p.c. – che, in quanto tale, non necessita di valutazioni di natura tecnico-specialistica – la non idoneità dei vaccini attualmente in commercio a prevenire l’infezione da SARS-CoV-2. In quest’ottica non ha senso, pertanto, escludere i non vaccinati dall’accesso al lavoro, visto che ogni lavoratore, vaccinato e non, “rebus sic stantibus, ossia con i farmaci oggi a disposizione della popolazione italiana” può infettarsi ed infettare gli altri.

Insomma: “venuto meno il presupposto per cui alcuni lavoratori possono entrare nei luoghi di lavoro ed altri no, la sospensione del ricorrente, giustificata dal fatto che non si sia vaccinato, è del tutto priva di fondamento”.

Certo potrebbe seriamente dubitarsi della ragionevolezza (e dunque della costituzionalità) d’una norma che impone di raggiungere, mediante la vaccinazione, un obiettivo ad oggi impossibile. Va sottolineato però, che il giudice non si spinge a tanto. Nel nostro ordinamento, infatti, la declaratoria d’incostituzionalità delle leggi non spetta alla magistratura ordinaria, ma alla Corte costituzionale.

Il Tribunale di L’Aquila non disapplica quindi norme di legge, non entra nel merito dell’efficacia o meno dei vaccini per la salute pubblica, né affronta le più ampie e complesse questioni connesse alla legittimità, in generale, dell’obbligo vaccinale, limitandosi piuttosto a colpire il provvedimento datoriale di sospensione, perché basato sull’inadempimento d’un obbligo legislativo oggettivamente impossibile. Sempre in questa prospettiva, si precisa coerentemente che, qualora la sospensione avvenga mediante provvedimento amministrativo, quest’ultimo “andrebbe disapplicato”, perché contra legem, dato l’irragionevole (ed anti-scientifico) effetto discriminatorio che produrrebbe, “almeno sotto il profilo (che qui solo interessa) dell’accesso al lavoro”.

*Professore associato di Diritto del Lavoro nell’Università Politecnica delle Marche

 

 


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