Paura e dissonanza cognitiva

Dal marzo 2020 la mente è pervasa dalla paura: paura del contagio, paura delle cure non efficaci o non disponibili per tutti, paura del vaccino, paura del giudizio sociale e della stigmatizzazione. Ognuna di esse sottende la paura della morte e dell’isolamento dal gruppo (che porterebbe comunque alla morte in termini filogenetici) e nessuno stimolo produce nella mente dell’essere vivente, una reazione più forte, rappresentando il nucleo motivazionale per eccellenza, sia in azione sia in evitamento, che è la sopravvivenza di sé e della specie. In un’ottica filogenetica la capacità di rilevare e rispondere alle minacce è un meccanismo di sopravvivenza profondo, che è altrettanto cruciale per la vita di una singola cellula batterica quanto per le numerose cellule di un organismo complesso. Negli animali, rilevare e rispondere al pericolo è funzione di un sistema di difesa presente nel cervello che consente all’intero organismo di difendersi. LeDoux bene chiarisce che quando uno stimolo esterno è classificato come una minaccia, gli output dei circuiti di rilevamento delle minacce innescano, da un lato, un aumento generale dello stato di eccitamento del cervello, dall’altro precise risposte comportamentali e di cambiamenti fisiologici. I segnali poi di tali risposte comportamentali e fisiologiche sono a loro volta inviate al cervello dove diventano parte non conscia della risposta al pericolo. La minaccia, dunque, aumenta la vigilanza: affinché l’ambiente venga monitorato. Se poi, grazie alla memoria, il monitoraggio ambientale rivela che sono presenti minacce conosciute, l’attenzione si focalizza su quegli stimoli che sono consciamente responsabili dello stato di eccitamento.

 

In questi due anni di concentrazione dell’informazione sui contenuti pandemici, ecco che siamo in presenza di una sovrastimolazione di quei meccanismi di cui siamo dotati che, se in condizioni naturali controllano i comportamenti che aiutano gli organismi a sopravvivere e a prosperare di fronte alle sfide e alle opportunità che si presentano nella vita, quando siamo continuativamente in uno stato di allerta, danno origine ad uno stato motivazionale difensivo, proprio dell’ansia, ovvero di una psicopatologia. Nello specifico, l’essenza dell’ansia è il sentimento spiacevole di apprensione, paura, angoscia e preoccupazione che si prova quando si percepisce una mancanza di controllo nelle situazioni di incertezza e di rischio. E’ il frutto della nostra capacità unica di immaginare il nostro sé futuro e, soprattutto, di anticipare scenari spiacevoli o addirittura catastrofici.

 

In questo periodo si sono susseguite informazioni contraddittorie, tese più a validare una coerenza politica che scientifica e questo ha incrementato la percezione di un ambiente non-sicuro. Questa amalgama di dati letti e variamente interpretati, ha prodotto una visione opinionistica di un argomento complesso che vedrebbe la sua giusta collocazione nei contesti scientifici e non certo nei salotti televisivi, su uno sfondo etico-morale fatto di eroi e carnefici alternativamente creati. E in questo mood, la disregolazione emozionale ha avuto la meglio, e quando l’attivazione di una tonalità emotiva supera una determinata soglia individuale di intensità o durata, che è la condizione di ansia, vengono messe in atto diverse modalità per riportare l’attivazione emozionale ad un livello soggettivamente accettabile.  Queste modalità, che rappresentano funzioni adattative dell’identità, possono essere schematizzate suddividendole in due principali “meccanismi” che operano a diversi livelli, per ridurre intensità o durata di emozioni che hanno superato una soglia individuale, o per evitare, in via preventiva, che possano superare tale soglia.

 

Un meccanismo è l’esclusione selettiva dalla coscienza di informazioni, immagini, ricordi o pensieri perturbanti che potrebbero alterare una condizione di regolazione delle emozioni. Tale funzione svolge un’azione prevalentemente preventiva, facendo in modo che determinati contenuti particolarmente discrepanti per quell’individuo non affiorino alla coscienza. L’esclusione selettiva di dati perturbanti è presente in ogni stile di personalità e rappresenta quello che già Bowlby chiamava “disconnessione cognitiva” (Bowlby, 1980); tale funzione ha un valore altamente adattativo per evitare attivazioni emotive particolarmente intense e difficili da gestire, ma può rappresentare anche una fonte di psicopatologia quando l’individuo si trovi ad escludere dalla coscienza dei dati rilevanti che meriterebbero di essere articolati per poter essere integrati nella propria identità  narrativa.  In questi quadri personologici troviamo l’estremo conformismo e l’adesione completa ad una unica lettura omnicomprensiva e semplicistica, in questo caso dell’evento pandemico, prediligendo visioni semplicistiche, affidandosi acriticamente al leader di riferimento percepito come base sicura e dispensatore di soluzioni ansiolitiche.

 

Come ci ha ben insegnato Leon Festinger, in genere molto amato al primo anno di università di Psicologia, l’uomo tende in generale ad essere coerente con se stesso nel modo di pensare e di agire. Quando questa coerenza manca, si crea uno stato di disagio che l’attività mentale cerca di eliminare o almeno di ridurre con varie forme di ristrutturazione cognitiva. L’insorgenza della dissonanza è sempre legata ad un coinvolgimento personale molto stretto, infatti è inevitabile conseguenza del processo decisionale. E’ presente non soltanto nella scelta libera tra due o più alternative, ma anche quando una persona è costretta attraverso incentivi di vario ordine: morale “Sei buono e fai del bene agli altri” o materiale “ottieni una serie di vantaggi”, ad un accordo forzato. Esiste poi il punto critico in cui la dissonanza è massima, punto oltre il quale, l’elemento cognitivo (la credenza) resistente, viene modificato e di conseguenza la pressione emotiva della dissonanza scompare, nello stesso modo in cui l’uva della volpe di Esopo, apparve improvvisamente acerba.

 

           Ci sono tuttavia strutture mentali che rispondono alla disregolazione emotiva data dalle informazioni contrastanti, ambigue e poco chiare, articolando le loro sensazioni e integrando le nuove informazioni nella propria narrativa, senza ricorrere alla negazione, ma andando ad aumentare la conoscenza degli eventi anche attraverso la condivisione sociale. In questo modo operano un salto di crescita della complessità del loro pensiero e così riducono il disagio legato ad un evento discrepante cogliendone l’occasione formativa e quindi evolutiva.

 

Tornando al tema dell’ansia, è definita come una reazione emotiva derivante da una minaccia reale o percepita ed è generalmente concettualizzata con un preciso costrutto fisiologico, cognitivo e comportamentale.  Dal punto di vista fisiologico è definita: da un’intensificata eccitazione del sistema autonomo (ad esempio aumento della frequenza cardiaca e della sudorazione) e da lamentele somatiche (ad esempio, fiato corto, mal di testa, mal di stomaco). Dal punto di vista comportamentale è caratterizzata da elusione o evasione, irrequietezza, o comportamenti ripetitivi o rituali. Le caratteristiche cognitive includono ipervigilanza rispetto ad eventuali minacce, presenza di pensieri di pericolo, preoccupazione e pensieri intrusivi persistenti. Tutti gli esperti della psiche hanno rilevato dal marzo 2020, incrementi importanti delle diagnosi psichiatriche in tutte le fasce di età, che ci vedono impegnati sin dall’inizio dell’emergenza in una continua presa in carico straordinaria, volta al contenimento dei sintomi anche per evitare acuzie traducibili in ricoveri non auspicabili né per il singolo paziente, né per il Sistema Sanitario Nazionale già messo a dura prova. Gli studi internazionali parlano addirittura di una maggiore ricaduta della pandemia sulle donne, producendo l’aumento dell’uso di alcool e psicofarmaci. Gli adolescenti hanno pagato il prezzo più grande del lockdown, vedendosi privati di tutto ciò che è vitale per lo sviluppo neuropsicologico: le occasioni di apprendimento, le relazioni, l’attività sportiva, l’esperienza affettiva e sessuale; i dati infatti riportano il 30% di presenza di Disturbo Post Traumatico da Stress, nei ragazzi esposti a misure di quarantena, con chiare e ben conosciute ricadute sul neurosviluppo. Si registrano inoltre un drammatico aumento dei tentativi di suicidio tra ragazzi nel periodo pandemico. Nelle persone anziane, l’isolamento protratto insieme al vissuto continuativo del rischio di morte ha condotto a depressione e ansia andando ad accelerare il decadimento cognitivo e il rischio di morte diverse da quelle legate al Covid-19. Sono passati venti anni dall’effetto Roseto e ormai è ampiamente dimostrato come la solitudine sia un significativo fattore di rischio di morbilità e mortalità nella stessa misura di altri fattori (come il fumo, l’obesità ecc.) anche attraverso il processo di inflammaging, da intendersi come quello stato infiammatorio cronico spesso presente nell’anziano che si aggrava con fonti di stress e che rende l’individuo soggetto alle patologie virali e non; ma non abbiamo mai sentito parlare di questo negli ultimi due anni. Cannon usò il termine “sistema simpatico-adrenergico” per descrivere l’azione combinata di nervi simpatici e ormoni surrenali alla comparsa della minaccia. L’asse ipofisi-surrene, anch’esso coinvolto, è più lento e non si esprime pienamente se non nel giro di minuti o addirittura di ore. In situazioni di stress il funzionamento dell’asse Ipotalamo-ipofisi-surrene è caratterizzato dall’attivazione dell’ipotalamo che secerne CRH, il quale stimola la ghiandola pituitaria a secernere l’ormone adrenocorticotropo, causando la produzione di cortisolo da parte delle ghiandole surrenali. In tempi più recenti, il lavoro di Bruce McEwen, Robert Sapolsky (et al.) ha mostrato come le conseguenze negative dello stress, in particolare quelle mediate dal cortisolo, non solo interessino le altre funzioni cognitive e la memoria, ma compromettano anche la funzione immunitaria e portino a malattia.

 

E’ stato dunque così utile e sempre necessario e conveniente, tenere le persone in uno stato continuativo di stress, sapendo quanti e quali conseguenze si provochino sul sistema immunitario di ognuno, proprio in un momento dove la risposta innata e naturale agli eventi biologici è di vitale importanza?
Come psicologi abbiamo seguito molti pazienti col Covid e non abbiamo mai smesso di interrogarci sul ruolo della risposta psico-neuro-immuno-enodocrina che l’individuo avrà sicuramente attivato, trattandosi di una malattia straordinaria, con un significato di morte ineluttabile che poche altre patologie hanno. Ci sono dati che fanno interrogare per esempio sul cosiddetto long Covid, rilevato essere presente prevalentemente su persone che erano a conoscenza di avere avuto la malattia a parità di risposta anticorpale di soggetti ignari di avere attraversato la malattia. Nel mondo delle neuroscienze, si inizia a parlare di Pandemic Brain: intendendo l’aumento globale dell’incidenza di affaticamento, nebbia cognitiva e depressione in individui non affetti da Covid-19, che sottende una neuroinfiammazione in individui sani data dai fattori stressanti pandemici, con conseguente impatto sulla salute del cervello umano.
Altrettanto prezioso risulta lo studio di recente pubblicazione che ha visto coinvolti il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino e Neurofarba di Firenze, sul ruolo dell’effetto nocebo in relazione agli effetti avversi del vaccino. Finalmente, se pure ancora troppo poco, parliamo di un evento, si esso malattia Covid-19 o reazione avversa, come complessa combinazione di fattori ad alto impatto emotivo, non solo come processi biochimici.
Concludendo, la grande assente imperdonabile di questi due anni, è la mente delle scienze post-razionaliste che vede l’esperienza umana parallelamente: da un lato come un continuo fluire, un accadere o, per dirla con Maturana, una “vivenzia” che ci accompagna costantemente, indipendentemente dal nostro pensarci e dall’altro come un continuo spiegarci questa esperienza del vivere. La nostra esperienza del vivere si svolge secondo questi due livelli che coesistono: un livello di esperienza immediata e un livello di spiegazione, di riordinamento che noi diamo all’esperienza immediata. E dove sono in questo momento i tentativi di integrazione psicologica per limitare quel processo che ben conosciamo dell’autoinganno, così pericoloso quando è massivo, per l’integrazione del sé? L’impegno mosso soprattutto dalla psicologia, nel comprendere ogni accadimento nella sua complessità, è stato completamente spazzato via da un fenomeno che noi stessi  dovremmo ben conoscere: la paura,ma dalla quale non dovremmo essere così travolti al punto da perdere ogni ancoraggio scappando verso posizioni di difesa narcisistica della categoria, trasformando la pandemia nell’occasione per sentirci parte (ma in verità mero strumento di persuasione sociale) del mondo sanitario da cui spesso abbiamo sofferto il mancato riconoscimento.
Ma era il 1990 quando Guidano poneva le basi del post-razionalismo riflettendo che “… se si considerano con la dovuta attenzione i dati offerti dalla convergenza interdisciplinaria prodotta alla fine dei anni 70 dalla Teoria dei Sistemi, la cibernetica, la termodinamica irreversibile, la scienza cognitiva, quella epistemologica evolutiva, ecc., si arrivava quasi inevitabilmente a un cambiamento radicale della nozione di realtà ed organismo e, in conseguenza, a un cambiamento nella relazione osservato-osservatore” (Guidano, 1990). Era ancora il 1990 quando H. Maturana (1990), proponeva un nome differente per chiamare la realtà che fino adesso abbiamo nominato: universo. L’universo è il termine di realtà unica, esterna, tipicamente empirista. Uni-verso, ossia: le cose vanno solo in un verso. Con la proposta del termine: Multi-verso, si comprende il modo in cui si manifesta la realtà, che è un manifestarsi secondo i suoi diversi aspetti, nel suo carattere peculiare.

 

Anche negli ambienti più ortodossi della medicina, era ormai pacifico considerare un sintomo, non tanto come un’entità singola e isolata, ma entro il contesto psicologico e sociale del paziente aprendo la valutazione del danno tissutale, non più solo come processi ascendenti, ma modulati da quelli discendenti.

 

Dove sono finiti i congressi multidisciplinari quando, cercando sì, di costruire protocolli di intervento, si aveva come obiettivo la Qualità della Vita del paziente? Tutto è tornato ad una lettura cartesiana causa-effetto, abbandonata dal mondo scientifico da oltre trent’anni. Eppure pareva ormai assodato il passaggio della diagnosi da evento puntiforme a processo, inteso come l’iter che il paziente percorre, insieme al clinico, allo scopo di rilevare e circoscrivere l’ampiezza e l’entità del/dei disturbi lamentati, di attribuire loro un significato (diagnosi) e di individuare le possibili strategie cui avvalersi per ridurre, modificare o eliminare, laddove possibile, la causa che provoca la sofferenza che il paziente stesso e i suoi familiari lamentano. Il modello bio-psico-sociale complesso prende in considerazione, in ogni singolo individuo, il fattore della vulnerabilità biologica, basata su fattori genetici, e l’interazione del genotipo con molteplici fattori ambientali, in grado di condizionare la costruzione di un sistema-persona.  

 

E la psicologia ha completamente perso il suo ruolo in questa pandemia, concentrandosi unicamente sul bisogno autoreferenziale di accettazione conformistica, dimenticandosi completamente del suo compito di perturbatore strategicamente orientato e invece di usare il suo saggio sapere per portare le menti dei clinici fuori dalla tempesta del panico, riorientandoli su un piano sistemico processuale complesso, lo ha messo al servizio della psicodiagnostica a distanza lasciando trasparire tratti aggressivi e giudicanti altamente impropri per una professione che si muove per favorire riorganizzazioni più funzionali per l’individuo e la collettività. Anziché mettere in guardia politica e scienza delle conseguenze pericolose di certe azioni, che per uno psicologo sono evidenti, e che portano inevitabilmente a comportamenti difensivi e scissi, si è ancorata su un eterno presente fatto di realtà dicotomiche: vero/fake, giusto/sbagliato, scienza/non scienza. La psicologia ha perso l’occasione di dimostrare davvero il potere del suo sapere: quello dell’integrazione delle diverse istanze del sé e degli esseri umani.

 

Auspico che la scienza del comportamento, come si definisce, torni a dare il suo prezioso contributo favorendo, come Popper insegna, che l’evoluzione verso un ordine strutturale di superiore complessità, passa invariabilmente per momenti di perturbazione in cui i conflitti e le contraddizioni presenti nel sistema conoscitivo affiorano alla coscienza innescando un processo di riordinamento dell’esperienza di sé.

 

E se è vero, come lo è, che i pensieri possono cambiare i pensieri, ma solo le emozioni possono cambiare le emozioni, spero che si passi presto, a partire da noi psicologi, da una dimensione di paura, a una di curiosità: che è quella che ha sempre mosso la scienza delle scoperte.
dott.ssa Medena Masini, psicologa e psicoterapeuta
dott. Silvano U. Tramonte, medico chirurgo