Lo sciopero della carta igienica

L’ospite di oggi è Sabrina Leonelli, giornalista, scrittrice, responsabile del servizio biblioteca, cultura e

politiche giovanili del Comune di Granarolo dell’Emilia (Bo). Si occupa di progetti di

varia natura in questa realtà e di organizzazione di eventi culturali.

È stata ufficio stampa di realtà private (associazione Ageop dell’ospedale Sant’Orsola e

Fiera Sana di Bologna) e ha creato e gestito uffici stampa nelle pubbliche amministrazioni,

in particolare della provincia di Bologna. Formatrice in laboratori giornalistici nelle scuole

superiori di primo grado.

Ha scritto romanzi: “Alex sta dormendo”, nel 2013, “La casa abitata dal vento”, nel 2015,

editi da Pendragon; mentre “Sotto il sole di Damasco” nel 2020, “Noi, i ragazzi dalla

pazienza 0”, 2021, e “Il guscio sottile della notte”, 2022, sono stati premiati nell’ambito

del concorso ‘R come Romance’ e pubblicati da Edizione Il Loggione. Autrice di racconti,

alcuni dei quali premiati e pubblicati in antologie, legati in particolare alla realtà culturale

e territoriale bolognese e dell’Appennino.

Il suo articolo, molto ben scritto, lamenta le contraddizioni e le ipocrisie del tempo, la manipolazione e la contraffazione e i condizionamenti di un sistema ormai prossimo ad implodere ma lamenta soprattutto l’apparente abulia dei giovani d’oggi, ma alla fine di una disperante rappresentazione conclude con un magnifico inno alla speranza e alla fiducia nei giovani!

 Titolo: Lo sciopero della carta igienica

 di Sabrina Leonelli*

Correvano gli Anni ’90 e imperversavano già negli istituti superiori gli scioperi per l’assenza di carta igienica nei bagni delle scuole. Poteva accadere che i più arguti e impegnati protestassero anche per il riscaldamento spento nelle aule.

Che si sa i giovani non hanno mai freddo, tranne quando sono seduti sui banchi di scuola.

Ma questi motti di intraprendenza e compassata ostilità si può ben dire che siano stati gli ultimi baluardi di una cosiddetta partecipazione giovanile, fatta eccezione per qualche tiepida rimostranza da parte di centri sociali, che nel tempo si sono rivelati poco più che aliti di vento, anch’essi gradualmente ridimensionati fino a scomparire, assieme alle proteste degli adulti che, quelle sì, si erano già smarrite nella notte dei tempi. Salvo poi rinverdire i fasti di quelle nostalgiche partecipazioni con qualche sporadica occupazione, come recentemente avvenuto, lungo le tangenziali e i raccordi autostradali nei pressi di alcune città, come è stato a Bologna per manifestare in difesa dell’ambiente; eterodiretti dalla moda del momento, fuochi fatui del pensiero collettivo, giusto il tempo di far venire l’ora dello Spritz, che quello sì ha dato impulso a veri movimenti: obiettivo sacrosanto della frequentazione degli hub vaccinali della trascorsa e famigerata stagione, per esempio.

La Greta Thumberg di turno, qualche improvviso risveglio sui diritti calpestati delle donne di certi paesi, come l’Iran, salvo dimenticarsi delle cittadine ancor più martoriate in altri remoti angoli della Terra che, non rientrando nei palinsesti dal mainstream, non pervengono nemmeno sulle nostre mappe geografiche, figuriamoci in quelle concettuali. Capaci però anche in questo caso di innescare quel sopito – anzi piuttosto tramortito! – slancio di indignazione che permette a qualcuno di scaldare un po’ quello spazio vuoto di ideali e valori che permea di sé il grande freddo delle menti, svuotate di senso da quando hanno perso capacità di porsi dubbi, di osservare criticamente la realtà e di discernere.

Oppure le bandiere dai colori arcobaleno divenute unico emblema della tutela dei diritti delle minoranze e del rispetto delle scelte sessuali e affettive, che hanno occupato la scena anche nel momento in cui migliaia di cittadini venivano privati del lavoro e della possibilità di accesso in numerosi luoghi (banche, negozi, ristoranti, musei, uffici postali, teatri, cinema, biblioteche…) perché privi di certificazione di avvenuta vaccinazione contro il Sars-Cov 2, amplificando il calderone reso volutamente confuso e ambiguo, dentro cui mischiare impropriamente diritti civili e diritti sociali, in una indistinta paccottiglia infarcita della solita e raffinata propaganda.

Un panorama che a tutti gli effetti rivela niente di più che un orientamento preciso, orchestrato sul palcoscenico di quel “The Truman show”, visto magari un tempo comodamente seduti in poltrona, ma che nel giro di poco ci ha fatto sentire parte di quell’immersione totalizzante, in cui recitare ognuno una parte, assistendo più o meno inermi alla sceneggiatura che ci è stata propinata e per cui ci siamo ormai assuefatti.

Surfiamo sulla sdrucciolevole superficie che fa della forma l’unica sostanza, discettando di asterischi da porre in sostituzione alla vocale con cui indicare un sostantivo maschile o femminile o ponendo al centro delle nostre giornate la battaglia per rivendicare un ‘sindaca, avvocata/tessa, magistrata, assessora’, tra le figure femminili che ricoprono questi ruoli, sentendoci paladini della modernità e dell’alto senso civico che qualcuno ci ha detto di vestire. Perché se è vero che il linguaggio è essenza, poiché esso stesso genera il pensiero, in quanto senza linguaggio non c’è pensiero – e in tal senso il relativo impoverimento dimostra sempre quale sia l’obiettivo sotteso – è altrettanto vero che il focus sterile sulle e rovesciate è soverchiante rispetto alla vera questione di genere e quindi affatto risolutivo, piuttosto banalizzante invece al punto da impedire una vera e seria discussione politica, culturale e sociale che sia però nel merito: quel grande assente!

Ciò che appare grave in questo quadro sommariamente accennato è l’inesorabile suicidio – di fatto assistito dai molti dormienti – e indottrinamento di chi dovrebbe rifuggire per definizione tale realtà, andando contro, trasgredendo: ossia i giovani, arruolati alla causa del sistema, per lo più rassegnati o inconsapevoli. Non tutti, ma troppi che hanno scelto di essere oggetti di arredo o inutili suppellettili di una dimora chiamata società che si sgretola in nome di un cavalcante degrado, in cui la fa da padrone la rinuncia totale, senza alcun tentativo di lotta, dei concetti di solidarietà, benessere, bellezza, gioia, che smarriscono il vero centro: l’uomo con la sua dignità e la sua identità. Parte del ‘bestiame’, come viene etichettata da qualcuno la quota di vittime sacrificali, ignare della realtà dei fatti, che hanno da tempo smesso di porsi domande.

Osserviamo allora una generazione che dopo la lotta per avere carta igienica nei bagni, che l’abbia ottenuta o meno, non si chiede nemmeno più quali siano i suoi diritti e le vere istanze su cui sfoderare le unghie, far sentire la propria voce e pretendere rispetto dalla politica e dalle istituzioni, ma che soprattutto ha smesso di sognare.

I sogni, quelle chimere (essendoci dimenticati ormai cosa è per Shakespeare ne “La Tempesta” la vera sostanza dei sogni), astratte, stucchevoli, demodé e inutili, sacrificate sull’altare dell’efficientismo, dell’iper tecnologizzazione e della competizione.

Sogni soffocati da ciò che circonda e assorbe i giovani. Il nulla riproposto in tutte le salse e ambiti, perché anch’essi si sentano tali. Come nella musica per esempio.

Basti pensare alla squallida trap, che facendo un grande sforzo qualcuno potrebbe ritenere, sia mai, catartica, con i suoi testi sulla vita di strada, la criminalità, lo spaccio il carcere e il dio denaro onnipresente, o la sua derivazione: la drill con una caterva di testi nichilisti e violenti, totalmente privi di valori e di speranza. Di fatto enfatica manifestazione del vuoto di bellezza, etica e visione. E se terminato l’ascolto di questa accozzaglia di suoni e parole, si finisce la giornata davanti a una delle innumerevoli serie Netflix, allo stesso modo intrise di violenza, soldi facili e degrado applicato ad astruse e quanto più banali narrazioni, create per anticipare e preparare i fruitori alle prossime imposizioni, allora il combinato disposto non può essere che cibo tossico,  veleno anche per le menti più lucide e brillanti, che si bevono questa pozione distruttiva mentre si preparano a diventare adulti.

Orizzonti e anche cuori, in fondo, che si spengono, privi di quelle luci che sappiano varcare gli spazi d’ombra e siano la vera prospettiva. Il sé, e il suo nutrimento, l’essere in quanto tale, possibilmente non conformato come invece lo si vorrebbe. E dentro il perenne sacrificio, altro aspetto della cosiddetta modernità. Che permanga costantemente il senso di colpa a ricordarci la nostra nullità e quindi la necessità di essere guidati da qualcuno.

Che se è vero che ognuno di noi è frutto dello scontro generazionale sulla musica e tutto il resto, lo è anche il dovere morale di rivendicare l’essere altro, nuovo, diverso da chi ci ha preceduto e questo ingranaggio oggi si è in gran parte inceppato.

Lontani dai tempi del mega raduno di Woodstock, per esempio, che sancì nell’estate del 1969 il trionfo della musica, come pure delle droghe e della rivoluzione sessuale degli hippy, è possibile comunque rintracciare i germi di una trasformazione che pose un nuovo monopolio sulla produzione musicale, dando di fatto il via all’”industrializzazione della musica e del prevalere del marketing sulla autenticità del movimento”, come viene ben descritto ne: “L’ultimo uomo”, del docente e saggista Enzo Pennetta; appropriandosi, cioè, di quel mercato per controllarlo e spremerne lauti profitti. Non è così pretenzioso, quindi, intravedere la genesi di un pensiero sempre più dominante che attraverso quel passaggio, che in quel caso fu il contesto americano di quegli anni, faceva dell’autentico e puro cittadino un individuo metropolitano, rivendicatore di diritti civili, difensore di minoranze, confluendo poi nel tritacarne del politically correct, che è la nuova ideologia politica con cui ritarare concetti e preconcetti. E da lì è possibile rintracciare ciò che ha portato anche al nostro presente giovanile, passando da operazioni come ‘Blue Moon’ degli Anni ’80 e da tutte le azioni intraprese per sedare le menti dei giovani e farne prodotti essi stessi a uso e consumo del mercato. Perché questo è uno dei Verbi della nostra modernità.

Il risultato, unitamente allo smantellamento sistematico della scuola intrapreso nel corso dei decenni, dalla riforma Gentile e ancor prima, messo in atto con metodo e, lì sì, oculata lungimiranza, ha poi contribuito a ridurre ulteriormente la visione (e la sua missione!) inibendo la partecipazione alla res publica. Masse di appannati consumatori, valutati sulla competizione spietata, asserviti a una mercificazione dei corpi che è fluidità dei sentimenti e del proprio sentirsi ed essere, protagonisti di una messa in scena così pervasiva da divenire difficilmente percepibile e riconoscibile, e dentro la liquidità, per usare una espressione cara a Zygmunt Barman, tipica della contemporaneità che ci attraversa.

Un quadro generale che potrebbe apparire cieco e pessimistico, ma che, come in tutte le realtà più faticose e buie, può rivelare spiragli impensati. Perché è vero tutto ciò che si è fin qui detto, ma lo è altrettanto che le nuove generazioni hanno un potenziale per certi versi superiore alle generazioni che li hanno preceduti, sono altro in termini di evoluzione, con una potenzialità esplosiva che nonostante il terreno franoso che gli è stato preparato, sapranno in qualche modo rappresentare il nuovo mondo che verrà: una possibile nuova svolta, a mio avviso già in atto, che porrà argini e nuova linfa per recuperare lo svuotamento di significato di questa società e della sua cultura, rivedendo, riesplorando, riafferrando e soprattutto riplasmando un nuovo paradigma di uomo, in primis, poi di società, che sia foriero di cambiamento di cui c’è vitale bisogno. Fiduciosi come lo si è al sopraggiungere di una nuova alba, che nei secoli dei secoli sa, ogni mattina, porre fine alla notte e all’incedere tormentato e sofferto delle sue ombre.

giornalista, scrittrice, responsabile del servizio biblioteca, cultura e politiche giovanili del Comune di Granarolo dell’Emilia (Bo)*