Ieri ho pubblicato un articolo sull’indagine clamorosa, e dovrei metterla al superlativo, del BMJ, che già suscita tentativi di ridimensionamento tanto maldestri e ridicoli quanto inutili da parte dei ferventi sostenitori del credo di stato, sulla verità di come sia stata realmente condotta, almeno in un centro, ma è davvero difficile pensare che sia un caso isolato date le pressioni e la fretta e la necessità di fare in pochi mesi quel che di solito si fa in una decina d’anni, la ricerca pilota di Pfizer che io trovai comunque, in verità, assai lacunosa e manchevole fin dalla prima volta che la lessi.
Il 13 settembre il British Medical Journal pubblicava una risposta rapida (https://doi.org/10.1136/bmj.n2101), che allora passò abbastanza in sordina, come tutto qui da noi del resto perché le notizie bisogna andarsele a cercare visto che oramai la nostra stampa è regredita al tempo delle veline, sul tema dell’immunità naturale.
Cito direttamente:” Ora c’è un crescente corpo di letteratura a sostegno della conclusione che l’immunità naturale non solo conferisce una protezione robusta, duratura e di alto livello contro COVID-19, ma anche migliore dell’immunità indotta dal vaccino (per esigenze di spazio e non essendo questo un articolo scientifico, evito di riportare la bibliografia ma resta a disposizione di chiunque me la volesse chiedere NDR). Eppure la maggior parte delle riviste scientifiche, dei media, degli autoproclamati esperti di salute e di politica pubblica continuano a mettere in dubbio. Questo dubbio ha conseguenze nel mondo reale, in particolare per i paesi con risorse limitate.”
L’infezione precedente riduce il rischio di reinfezione sintomatica del 93%. 93% !!!!!
Si è potuta dimostrare l’esistenza di cellule di memoria longeve che fanno stimare che la protezione duri per anni.
“Prima che il CDC decidesse di interrompere la raccolta di dati su tutte le infezioni rivoluzionarie alla fine di aprile 2021, ha riportato > 10.000 infezioni rivoluzionarie (2 settimane dopo il completamento della vaccinazione) negli Stati Uniti, con una mortalità di ~ 2%”
E io mi chiedo perché mai il CDC abbia interrotto la raccolta dati. Mi vien di pensare che non si volesse sapere quanto drammatica si avviava ad essere la situazione… In realtà ormai sappiamo che il vaccino fallisce entro pochi mesi, pochi mesi.
“Come dovremmo usare i dati collettivi per dare priorità alla vaccinazione? Questi nuovi dati supportano concetti semplici e logici. L’obiettivo della vaccinazione è quello di generare cellule di memoria in grado di riconoscere SARS-CoV-2 e generare rapidamente anticorpi neutralizzanti che prevengono o mitigano sia l’infezione che la trasmissione. Coloro che sono sopravvissuti al COVID-19 devono quasi per definizione aver prodotto una risposta immunitaria efficace; non sorprende che la letteratura in continuo aggiornamento dimostri che l’infezione precedente diminuisce la vulnerabilità. A nostro avviso, i dati suggeriscono che le persone che sono state infettate da SARS-CoV-2 potrebbero non aver bisogno di vaccinazioni. Non dovremmo discutere le implicazioni dell’infezione precedente; dovremmo discutere su come confermare l’infezione precedente.”
E soprattutto dovremmo pensare che con la vaccinazione per una malattia dalla mortalità tanto bassa impediamo che si sviluppi davvero qualcosa che si avvicini a quell’immunità di gregge cui tanto aneliamo e altrettanto fortemente impediamo noi stessi.
Ma non basta. L’altro ieri, il BMJ ha tirato un’altra bomba meritandosi il titolo, ai miei occhi, di paladino della verità. Nella sua rubrica Testa a Testa pubblica lo scontro tra Innes e Sleat da una parte e Parker dall’altra (https://doi.org/10.1136/bmj.n2571). Evito di riportare le argomentazioni dei primi due a difesa del passaporto vaccinale perché sono le stesse utilizzate qui da noi dai difensori ufficiali renitenti al buon senso, e vi diletterò, invece, con le argomentazioni di Parker che sono assai interessanti e sensate. Parker, dunque, nega che il pass sia una valida alternativa al lockdown per alcune importanti questioni. Intanto, non dimostra che le persone siano libere o al sicuro dal virus. Nell’agosto 2021 il Boardmasters Festival all’aperto in Cornovaglia ha utilizzato i passaporti vaccinali con test aggiuntivi, ma è comunque diventato un evento “superspreader”, incubando quasi 5000 casi. Date le varianti e l’eterogeneità della risposta immunitaria, i passaporti vaccinali non possono permettere una valutazione corretta del rischio a livello individuale.
Come le misure di salute pubblica più tradizionali come l’uso della mascherina o il distanziamento, i passaporti possono ridurre il rischio ma non possono garantire la sicurezza e, soprattutto, potrebbero perfino aumentare il rischio infondendo un falso senso di sicurezza. A differenza delle mascherine o del distanziamento sociale, tuttavia, introducono rischi profondi nella società.
Il rischio più evidente deriva dalla segregazione, che potrebbe introdurre barriere alla partecipazione economica e sociale. Se un pass dovesse essere basato sullo stato di vaccinazione, alcune persone potrebbero avere difficoltà a dimostrarlo secondo gli standard richiesti, forse perché non erano disposte a essere vaccinati, forse per non essere in grado di ricevere il vaccino o potrebbero essere stati vaccinati all’estero, aver partecipato ad uno studio oppure essere state vaccinate con un farmaco non riconosciuto. Un pass basato sull’accesso ai tamponi ha le sue barriere, tra cui disponibilità e costi, tanto più dopo interventi sul sociale che hanno ridotto la capacità economica di quasi tutti. O, infine, potrebbe aver fatto la malattia ed essere immune come e forse più degli altri.
In secondo luogo, i controlli polizieschi sullo status degli individui potrebbe contribuire a ulteriori barriere e discriminazioni per le minoranze etniche, o per le persone con problemi di cittadinanza. Se si inizia a utilizzare il green pass per la normale partecipazione a eventi, attività e viaggi, solo le persone che sono disposte e in grado di farlo e vi hanno accesso saranno autorizzate a partecipare, esacerbando le disuguaglianze creando immani problemi sociali dal diritto al lavoro alla ripresa economica.
Un terzo rischio, il più preoccupante, è la creazione di una tecnologia di sorveglianza duratura in risposta a quella che speriamo sia una crisi temporanea. La tecnologia giustificata per le emergenze ha l’abitudine di normalizzarsi.
Gli strumenti digitali consentono la condivisione di informazioni personali con enti governativi e privati ma anche con la polizia o le compagnie assicurative e organismi economici come le banche. Inoltre gli strumenti sono facili da adattare e implementare: i sistemi che includono test e vaccinazioni potrebbero essere ampliati per incorporare altri fattori di rischio o condizioni, dalla pressione sanguigna alla salute mentale, o, per andare oltre la salute, l’etnia, la sessualità, le idee politiche. Dovremmo considerare non solo come tali strumenti vengono utilizzati ora, ma come potrebbero essere utilizzati in futuro da diversi regimi politici e daremmo addio alla privacy, alla libertà individuale, e a tutti i diritti fondamentali tutelati dalla costituzione.
Un siffatto strumento richiederebbe, per la sua introduzione, almeno basi scientifiche trasparenti, compresi modelli degli effetti sulla salute pubblica, norme tecniche di progettazione e uno scopo chiaro, specifico e limitato. Ma non basta, imperativo sarebbe il regime legale, comprese le clausole di “caducità” per sopprimere sistemi di controllo resi inutili dal venir meno della causa che li ha generati, e poi le considerazioni etiche, le strutture politiche per governare e mitigare i potenziali danni, i mezzi per rispettare diritti e consentire ricorsi e opposizioni. Infine, nulla e nessuno potrebbe garantire che al cessare dell’emergenza tali sistemi sarebbero disattivati e lo scarso rispetto mostrato per la costituzione in questa pandemica circostanza ce lo fa temere assai realisticamente. Una volta costruito uno stato di polizia a chi mai verrebbe in mente di smantellarlo e perderne vantaggi e privilegi acquisiti?
Dr. Silvano Tramonte, coordinatore Gruppo Medico scientifico EUNOMIS