di Silvano Tramonte*
Per una volta esonderò dal mio alveo e invaderò un campo che non mi appartiene, ma di fronte a tutto quello che sta accadendo non posso esimermi dal proporre una terapia ai malanni di oggi. Tralascerò di identificarli giacché sappiamo tutti quali sono: dalla salute alla politica, all’economia, alla politica estera, alla politica interna, al mercato, all’inquinamento, alle politiche ambientali sostenibili ecc. ecc. Stanno arrivando venti di tempesta e tempi davvero bui. Dovremmo cambiare il corso, che appare ormai ineluttabile, degli eventi. Dobbiamo provarci ma se pensiamo che basti andare alle urne certo non cambierà niente. Dobbiamo cambiare noi se vogliamo che cambi la storia che appare già scritta e in predicato di avverarsi! CAMBIARE vuol dire smettere di dire SI a tutto quel che ci propinano e cominciare a dire NO. Ci sono molti modi di dire no, ovviamente, ma io intendo una strategia del NO non violenta, non illegale, che non esponga a rischi o problemi di alcun tipo ma solo ad un poco di scomodità, magari. Il nemico è la globalizzazione, il controllo attraverso la digitalizzazione totale, la manipolazione delle menti, il condizionamento delle azioni e l’accentramento economico finanziario in poche mani avide e spietate; dunque, la difesa è semplice: evitare queste trappole e riconoscere certi trucchi. Facciamo la spesa? Preferiamo i negozietti alla grande distribuzione. Quelli di quartiere e torniamo a stabilire rapporti di conoscenza e di buon vicinato. In campo alimentare preferiamo prodotti locali e snobbiamo i prodotti esteri impostici a scapito dei nazionali. Sosteniamo le aziende italiane se producono in Italia. Sosteniamo gli artigiani. Torniamo ad aggiustare la roba. Cerchiamo di non cambiare oggetti e macchinari vari: facendolo cadiamo nella trappola dell’obsolescenza programmata. Le cose troppo complicate e troppo dotate di elettronica, o peggio troppa informatica, non sono riparabili né aggiornabili. Aboliamo l’inutile, i gadget, i fronzoli, le macchine “intelligenti” il virtuale, torniamo ad occuparci della realtà e delle nostre cose.
Un altro modo di dire no è rifiutarsi di comprare quello che ci vogliono vendere: le loro auto elettriche, le loro armi, le loro medicine tecnologiche, le loro verità, le loro idee, la loro versione della storia e dei fatti, le loro guerre, i loro telefonini con troppi G, la loro realtà virtuale, il loro transumanesimo, tutte le loro digitalizzazioni e soprattutto le loro carte di credito. Diciamo NO!
Noi siamo moltissimi e loro sono in pochi.
Hanno bisogno di noi più di quanto ne abbiamo noi di loro. La STATEGIA DEL NO è una strategia vincente solo applicandola tutti, è una strategia, economica e sicura, non si deve far altro che dire NO ogni volta che si può.
La UE emana norme restrittive sull’energia, sulla corrente elettrica e sul cibo (https://www.repubblica.it/economia/diritti-e-consumi/diritti-consumatori/2018/01/12/news/cibo_ed_etichetta_d_origine_un_regolamento_ue_spazza_via_tutti_i_decreti_italiani-186230046/) in una società in cui paradossalmente si produce in eccesso e pretende che si compri tutto. Ma perché non dichiarano fuori legge il consumismo? E l’obsolescenza programmata? Perché non torniamo al risparmio, alla roba che dura una vita e alle lampadine da tre candele in versione led?
Mi si potrebbe rispondere perché si andrebbe incontro alla recessione. Ma la recessione di cosa? Di un mercato iperproduttivo? Un mercato che invece di cercare di soddisfare le esigenze pratiche concrete della gente ne suscita continuamente effimere necessità per vendere infinità di prodotti inutili. La recessione, in economia, è una condizione macroeconomica caratterizzata da livelli di attività produttiva più bassi di quelli che si potrebbero ottenere usando completamente ed in maniera efficiente tutti i fattori produttivi a disposizione, in contrapposizione dunque al concetto di crescita economica (https://it.wikipedia.org/wiki/Crescita_economica). Ma se il problema è l’eccesso di produttività? Se la patologia è un’ipertrofia produttiva allora la recessione è una terapia adeguata al rientro dell’ipertrofia in un più fisiologico equilibrio. L’ipertrofia è una patologia a tutti gli effetti poiché è una smisurata crescita di qualcosa mentre un equilibrio è un rapporto tra opposte tendenze o forze. Abbiamo imparato a ripiantare alberi in relazione a quanti ne tagliamo, o meglio, i nordici hanno imparato, noi non del tutto. Pensare a un mercato sempre in crescita è un’idiozia spaventosa.
Il mercato dovrebbe essere in equilibrio. Pensare ad un mercato sempre in crescita è come pensare che le riserve siano inesauribili. Pensare ad un’economia sempre in crescita è un non senso: chi dovrebbe produrre tutta questa ricchezza in un ciclo continuo? E chi dovrebbe comprare tutto ciò che si produce in eccesso? Qui, sul pianeta e nelle umane cose, NULLA è ILLIMITATO dunque non possiamo continuare a perseguire una crescita illimitata ma una ragionevole distribuzione dei beni. Ora fatemi dire una cosa: come si concilia l’affermazione che è necessaria una decrescita anagrafica, con la necessità di una crescita produttiva? Anche ammesso che non ci fosse la crisi che c’è, se diminuisce il numero degli abitanti del pianeta ma la produzione continua a crescere ogni persona dovrà continuare ad aumentare la sua capacità di spesa ma non è che le persone attingono le proprie capacità economiche fuori da questo sistema economico, dunque, tutta questa ricchezza dove dovremmo andare a prenderla dato che, invece, il sistema è concepito per diminuire costantemente la ricchezza a disposizione di tutti. Nozione che è di pubblico dominio dato che sappiamo tutti che il costo della vita è in continuo aumento o che il valore del denaro è in continua diminuzione e con esso la capacità di spesa e di acquisto delle persone. Quando io comprai il mio primo litro di benzina-miscela il prezzo al litro era di 105 lire, circa 6 centesimi di euro. E la moto in cui la misi costò a mio padre la bellezza di 95.000 lire: 50 euro. Il costo della vita è aumentato a dismisura per via del drenaggio fiscale il cui scopo era di offrire servizi che però si sono andati via via riducendo e comprimendo (istruzione, sanità, previdenza ecc.) senza che la pressione fiscale diminuisse e senza che il “benessere” offerto raggiungesse un limite ragionevole e lì si fermasse consentendo di mantenere la spesa a un livello stabile per le famiglie. Il mercato ricorre ad un’infinità di trappole e di trucchi per spremere sempre di più gli acquirenti: la carta di credito è una delle più note e usate, l’obsolescenza programmata la più perversa e ora è in arrivo lo IoT.
Sapete cos’è lo IoT? È l’internet delle cose. Cioè, le cose, le vostre cose, sono connesse a Internet e fanno qualcosa. Credete sia nel vostro interesse? Davvero? E non del sistema, del mercato, dei grandi potentati economici che anelano al vostro obolo quotidiano? Si parla di Internet of Things (il cui acronimo è IoT) o ancora di Internet delle Cose, ma forse sarebbe più corretto definirla Internet degli oggetti. Ci sono, infatti, gli oggetti intelligenti (i cosiddetti “smart objects”) alla base dell’Internet of Things. E non stiamo parlando soltanto di computer, smartphone e tablet, ma soprattutto degli oggetti che ci circondano all’interno delle nostre case, al lavoro, nelle città, nella vita di tutti i giorni. L’Internet of Things nasce proprio qui: dall’idea di portare nel mondo digitale gli oggetti della nostra esperienza quotidiana. Sono passati oltre 50 anni dalla nascita di Internet e più di 20 da quando è stata coniata l’espressione Internet of Things. In questi anni le tecnologie IoT si sono moltiplicate e sviluppate, così come si sono profondamente evoluti i numerosi ambiti applicativi: casa intelligente, smart building, smart metering, smart factory, auto intelligenti, smart city, e via a seguire con smart environnment, smart agricolture, smart logistics, smart lifecycle, smart retail e smart health. Tutti ambiti resi possibili dall’interconnessione degli oggetti intelligenti. Tutti “pianeti” appartenenti alla galassia dell’Internet delle Cose.
Per comprendere al meglio il fenomeno, in questa guida ci inoltreremo allora nei principali campi di applicazione dell’Internet of Things, analizzandone caratteristiche, proprietà, tecnologie e prospettive di mercato. (Cos’è l’Internet of Things (IoT): significato, esempi e applicazioni (osservatori.net)). Prospettive di mercato! Il mercato deve crescere e vendere, sempre di più, e se non vende si deve inventare qualcosa. Non importa che serva o no, l’importante è che lo si compri. Abbiamo persino inventato, e prodotto e venduto, i pantaloni rotti!! E gli oggetti sono diventati intelligenti! Ma scusate, avete mai visto un oggetto intelligente? Non sono intelligenti, al contrario, sono sommamente stupidi: non fanno altro che ripetere a pappagallo quello che gli hanno detto di fare, e come. Ma non sanno quello che fanno e non possono valutare.
Il nome è tutto un programma: Internet delle cose. Oggetti smart in grado di connettersi a una rete per elaborare dati e scambiare informazioni con altri oggetti. E quello che emerge è un’intelligenza propria. A fine 2018 gli smart objects muovevano un indotto di circa 5 miliardi di euro (v. link precedente). Indotto da 5 miliardi, ecco quello che conta. Ma qualcuno di noi sente la necessità che la propria lavatrice o frigorifero sia connesso alla rete? A chi può interessare sapere cosa contiene il mio frigorifero? A me, che apro e guardo, no! Dunque, con chi diavolo deve scambiare informazioni il mio frigorifero? Forse con chi deve controllare il mio cibo per eventualmente sanzionarmi se l’informazione che gli arriva dal frigorifero non è congrua con quella che gli arriva dalla pattumiera? Intelligente anche lei, ovviamente. D’altra parte, come potrebbe non essere intelligente anche la pattumiera, connessa in rete, in una smart home, connessa in rete, in una smart city anch’essa connessa in rete? Ma lo scopo vero quale sarà? Spiarci? Controllarci? Per controllare che tipo di infrazione commetteremo nelle nostre case ormai prive di privacy ma tutte rigorosamente intelligenti?
Il cibo non si butta. Punto. In Spagna sarà a breve una realtà: dal 2023, grazie a un poderoso piano anti-spreco che coinvolge medie e grandi imprese che saranno “costrette” a trasformare la frutta non vendibile, ad esempio, in marmellata o in succo. Mentre i ristoranti si doteranno obbligatoriamente della “Doggy bag”. Sono solo alcune delle proposte contenute nel disegno di legge al vaglio. Poche settimane fa il governo socialista guidato dal presidente Pedro Sánchez ha infatti approvato un progetto che punta a un unico obiettivo: non gettare via il cibo con l’ambizione di fare scuola in Europa.
Come spiegato dal ministro spagnolo dell’agricoltura, della pesca e dell’alimentazione Luis Planas, il nuovo strumento adottato dal Governo modificherà i processi della catena alimentare nei punti in cui essa è più inefficiente. Ma, ispirato all’economia circolare, il “progetto di legge sulla prevenzione delle perdite e degli sprechi alimentari” è notevole anche sul piano etico, dal momento che include progetti collaborativi tra ristoranti, organizzazioni di quartiere e banche alimentari. Pena? Multe salatissime fino a 500 mila euro. I numeri a suffragio sono di fatto impietosi: 1.300 tonnellate di cibo (31 kg pro capite) che ogni anno vengono gettate dai cittadini.
E come li gestiamo questi cittadini? E prima ancora come li controlliamo? Controllare tutto è imperativo, dunque, ma anche semplificare. Mangiamo insetti che costano poco, ci si fa di tutto e si producono in abbondanza in poco spazio con quella spazzatura che adesso non sappiamo più dove mettere!
Arrivano sul mercato i primi biscotti a base di insetti. Li produce l’azienda vicentina Fucibo. Ingredienti: farina di mais, zucchero, burro, uova, larve di Tenebrio Molitor, una sorta di scarafaggio nero lungo un paio di centimetri, essiccate e poi ridotte in polvere (https://www.agi.it/cronaca/news/2022-09-10/food-biscotti-insetti-larve-fucibo-18028477)
Non ci resterà che consolarci ammirando la nostra splendida auto elettrica, che avremo comperato a caro prezzo ma che non potremo usare perché sono più inquinanti delle endotermiche e poi mangiano troppa energia elettrica! Non caricare le auto elettriche per non appesantire ulteriormente una rete che sta invecchiando e che è stata messa a dura prova da una temuta ondata di caldo. È l’indicazione che è stata fornita ai californiani, dopo che la scorsa settimana, lo Stato ha annunciato di voler vietare la vendita di nuove auto a benzina a partire dal 2035 (https://www.repubblica.it/green-and-blue/2022/09/02/news/california_rischio_blackout_stop_ricarica_auto_elettriche-363884404/In Califoria rischio blackout)
Intanto, però, il clima torrido sta mettendo sotto pressione la rete elettrica, già sottoposta a forti tensioni, soprattutto nelle ore più calde, quando i sistemi di condizionamento dell’aria – un must negli Stati Uniti – funzionano a pieno regime. Nei sobborghi di Los Angeles sono previste temperature fino a 44 gradi, mentre una cupola di calore si estende sull’ovest americano. Dunque, se ci si deve rinfrescare d’estate e scaldare d’inverno, non si può caricare l’auto elettrica. E che diavolo, mica si può avere tutto nella vita! È una guerra ed è una guerra che si perde come tutte le altre: non combattendo. Ma questa la vinciamo con dei semplici, anche se incomodi, NO.
LA STRATEGIA DEL NO è semplice e ci fa pure risparmiare quattrini. Dire no è rifiutarsi di comprare quello che ci vogliono vendere: le loro auto elettriche, le loro armi, le loro medicine geniche supertecnologiche dagli scopi oscuri, le loro verità, le loro idee, la loro versione della storia e dei fatti, le loro guerre, i loro telefonini con troppi G, la loro realtà virtuale, il loro transumanesimo, tutte le loro digitalizzazioni e soprattutto le loro carte di credito. Diciamo NO!
Noi siamo moltissimi e loro sono in pochi.
Hanno bisogno di noi più di quanto ne abbiamo noi di loro. Se solo rinunciamo a dire sempre sì!
*Medico chirurgo e consigliere Direttivo EUNOMIS