Potrebbe sembrare fuori contesto la trattazione del tema referendario su queste pagine, rispetto alle tematiche solitamente affrontate negli articoli che precedono.
Tuttavia non sarà sfuggito ad alcuno come uno dei vulnera che hanno connotato tutta la vicenda pandemica degli ultimi due anni sia stato proprio quello della Giustizia.
Pertanto, pur se con la doverosa precisazione sulla necessità di evitare ogni generalizzazione, non ci si può esimere dal rilevare che i cittadini soprattutto nell’ultimo periodo hanno percepito e lamentato in più occasioni una sostanziale mancanza di intervento della Magistratura su vicende che mostravano -nella più clemente delle ipotesi- quantomeno opacità, se non addirittura evidenti esigenze di tutela giuridica, rimaste appunto per lo più disattese.
Da qui dunque sorge l’esigenza di illustrare sia pur sommariamente in cosa consista in generale lo strumento referendario e nello specifico quali tematiche coinvolgano i quesiti ammessi al voto popolare, al fine di stimolare le personali riflessioni del lettore in ordine all’opportunità di recarsi al voto con l’auspicio che l’esito dello stesso possa contribuire a migliorare le cose.
Va precisato che l’iniziativa referendaria di cui si tratta è del tutto trasversale: formazioni politiche del più diverso “colore” l’hanno voluta e sostenuta, pertanto risulterà chiaro come chi scrive non abbia nessuna intenzione di incidere in un senso o nell’altro, bensì intenda semplicemente fornire un pur modesto contributo di chiarezza sul tema.
Si voterà il 12 giugno 2022 (domenica) dalle ore 7 alle ore 23.
I quesiti sono cinque:
1. Riforma del CSM -scheda verde
2 Equa valutazione dei magistrati -scheda grigia
3 Separazione delle carriere dei magistrati -scheda gialla
4 Limiti agli abusi della custodia cautelare -scheda arancione
5 Abolizione del decreto Severino -scheda rossa
Ogni singolo quesito costituisce un referendum, e ciò significa che, recandosi alle urne, il cittadino potrebbe anche decidere di non ritirare una o più schede per le quali auspica non si raggiunga il quorum di partecipazione.
Con il termine quorum, di chiara provenienza latina (letteralmente significa “dei quali”), viene indicata la quota minima, calcolata numericamente oppure in percentuale, dei voti espressi o dei votanti, richiesta perché la consultazione referendaria sia considerata valida: per la sua validità è necessario che si rechino alle urne metà degli aventi diritto al voto più uno (art. 75/4 Cost.).
Se il quorum non fosse raggiunto la norma oggetto del quesito rimarrebbe inalterata.
Inoltre: se il 50%+1 degli aventi diritto vota, occorre poi il quorum dei voti, e cioè che il 50%+1 dei votanti scelga per il “sì” perché il referendumpassi.
Si tratta di referendum abrogativi, ossia finalizzati all’abrogazione di specifici articoli di legge (ovvero di parti di articoli), l’eliminazione dei quali determinerebbe il “riespandersi” della norma previgente ove esistente.
Occorre pertanto avere ben chiaro il significato (e il colore della scheda) di ciascun quesito.
1. Riforma del CSM
Il quesito: Volete voi che sia abrogata la Legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta”?
Il CSM è l’organo di autogoverno dei magistrati e ne regola la carriera. Per due terzi è composto da magistrati eletti.
È presieduto dal Presidente della Repubblica che è membro di diritto al pari del Presidente della Suprema Corte di Cassazione e del Procuratore Generale presso la stessa Corte.
Gli altri 24 componenti sono eletti per due terzi dai magistrati, scelti tra i magistrati, mentre il restante terzo viene eletto dal Parlamento in seduta comune.
Un magistrato che voglia candidarsi a far parte del CSM deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme di “magistrati presentatori” il ché nel tempo ha purtroppo determinato il verificarsi di logiche spartitorie in seno alla categoria, come peraltro emerso dalle recenti inchieste ormai note alle cronache (il cd. “caso Palamara”).
L’abrogazione delle parole sottolineate nel sopracitato quesito (dunque la vittoria del Sì), comporterebbe il ritorno alla previgente formulazione del 1958, che prevedeva che tutti i magistrati in servizio potessero proporsi come membri del CSM, presentando semplicemente la propria candidatura.
2. Equa Valutazione dei magistrati
Il quesito: Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a)”; art. 16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?
I magistrati, come tutti i dipendenti dello Stato, sono soggetti a valutazioni periodiche che ne determinano la progressione delle carriere.
A valutarli è il Consiglio Superiore della Magistratura, che però non può conoscere nel dettaglio le attitudini, la preparazione e i comportamenti reali di tutti i magistrati italiani. Si avvale perciò del lavoro “istruttorio” svolto dai Consigli Direttivi della Corte di Cassazione e dai Consigli Giudiziari territoriali
Gli organismi territoriali (i Consigli giudiziari) sono formati da componenti “togati” (cioè magistrati) e da componenti “laici” (cioè avvocati e docenti universitari).
Solo i componenti togati hanno però diritto di voto.
L’iniziativa referendaria mira a sanare una sovrapposizione tra “controllore” e “controllato”, in quanto mira ad estendere il diritto di voto ai membri “laici” dei Consigli (avvocati e docenti universitari).
Se passa il “Sì” cioè i componenti non togati dei Consigli potranno partecipare attivamente alla valutazione dell’operato dei magistrati, il ché del resto è strettamente correlato al quesito di cui al punto che precede.
3. Separazione delle carriere dei magistrati
Il quesito: Volete voi che siano abrogati: l’ “Ordinamento giudiziario” approvato con Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura”; la Legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; (-segue-)”?
Il lettore quasi certamente ha smesso di leggere alla terza riga, ed è per questo che dopo aver tagliato la testuale dicitura si rimanda per la lettura integrale del testo al link della Gazzetta Ufficiale https://www.gazzettaufficiale.it/atto/vediMenuHTML?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2022-04-07&atto.codiceRedazionale=22A02322&tipoSerie=serie_generale&tipoVigenza=originario
In estrema sintesi: la riforma del codice di procedura penale del 1988 ha contemplato una netta distinzione di ruoli tra i soggetti del processo ossia tra la Difesa (l’avvocato), il Pubblico Ministero (l’accusa) e il Giudicante nel processo.
Il processo prevede altresì l’assoluta parità delle parti, che sono il PM e il Difensore, i quali secondo le regole e le dinamiche del rito si confrontano alla pari tra loro nel corso del dibattimento, per fare emergere una verità processuale sulla quale il Giudicante -organo terzo- è chiamato a decidere in qualità di soggetto super partes.
La prova, che dovrà essere posta a fondamento della decisione (sentenza), si forma durante le udienze del dibattimento: tutto ciò che il PM acquisisce durante le indagini, che è una differente fase procedimentale, serve inizialmente solo per discutere se esistano o meno i presupposti per sottoporre al processo un indagato (e ciò avviene tramite il “filtro” dell’udienza preliminare nella quale un Giudice -il GIP- stabilisce se sussistano o meno i presupposti per rinviare a giudizio la persona indagata, proprio basandosi sulle indagini svolte), ma dopo di ciò nessuno di quegli atti di indagine (con alcune eccezioni con le quali non ci staremo ad annoiare) può essere portato a conoscenza del Giudicante del processo, il quale deve essere neutrale, imparziale e all’oscuro di quanto emerso nella fase delle indagini, poiché quell’attività potrà essere sottoposta alla sua valutazione solo se emergerà e sarà acquisita agli atti (al fascicolo) del dibattimento, ossia nel paritario contradditorio con l’avvocato difensore.
Il fatto che nel corso della loro carriera gli stessi magistrati passino più volte dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa, alternandosi cioè nelle diverse funzioni, determina uno squilibrio nella pretesa parità tra le parti e snatura la struttura stessa del processo come concepito dal legislatore del 1988, il ché in ultima analisi costituisce altresì un potenziale pericolo di strumentalizzazione del processo -talora a fini politici.
Col “Sì” il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale.
4. Limiti agli abusi della custodia cautelare
Il quesito: Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché’ per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni.”?
La questione non è semplice. Volendo sintetizzare (con tutti i limiti della sintesi) si tratta della possibilità per il magistrato di applicare una misura restrittiva in via cautelare (e dunque prima di quel giudizio di responsabilità che è dato dalla sentenza) in caso di pericolo di reiterazione del reato da parte del soggetto indagato o imputato.
Molto ci sarebbe da dire e molto è stato detto sul punto, ma ciò che ha spinto i promotori dell’iniziativa referendaria a richiedere la modifica di questo articolo del codice di procedura penale è stata soprattutto l’osservazione che uno dei parametri che consentono di valutare il “pericolo di reiterazione del reato” è costituito dalla «personalità dell’imputato», il ché determina uno sganciamento della decisione del magistrato da una visione esclusivamente oggettiva del fatto ed espone al rischio di strumentalizzazione delle misure cautelari.
Il ché, letto congiuntamente con le problematiche toccate dagli altri quesiti e in particolare la terzietà del giudicante, può infatti comportare il rischio di un uso distorto dello strumento, anche se -va detto- la norma in realtà àncora la valutazione del Giudice alla sussistenza di un “concreto e attuale pericolo che questi commetta (…)”.
Va però tenuto in debito conto tutto il testo dell’art. 274 c.p.c. e la sua esatta collocazione nella struttura del codice di procedura penale.
Innanzitutto detto articolo descrive uno dei tre requisiti necessari e ulteriori rispetto a quello generale di cui al precedente art. 273 c.p.p. secondo il quale comunque “Nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza”.
Inoltre la lett. C) dell’art. 274 c.p.p. (oggetto di referendum) indica come requisito per l’applicazione di misure cautelari il “pericolo di reiterazione del reato”, ma limita l’applicazione di quelle custodiali (e cioè gli arresti domiciliari o la custodia in carcere) alle ipotesi delittuose più gravi, elencate nella seconda parte dell’articolo riportato in corsivo (soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena, ecc. ecc.).
A parere dello scrivente, il dubbio che privare del tutto la magistratura di uno strumento di diritto rivelatosi utile nel tentativo di arginare i cd. fenomeni di micro-criminalità (a titolo d’esempio lo spaccio o il borseggio, ove commessi da persone che risultino già più volte arrestate per i medesimi reati e dunque presumibilmente dedite a simili condotte) possa avere controindicazioni dovrebbe essere preso in seria considerazione, traendone poi ciascuno le proprie personali determinazioni.
Col Sì verrebbe eliminata in ogni caso la possibilità di dar luogo a misure cautelari (personali e non) per l’ipotesi di pericolo di reiterazione del reato.
5. Abolizione del Decreto Severino
Il quesito: Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?
Il cd. Decreto Severino prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per i parlamentari, per i rappresentanti di governo, per i consiglieri regionali, per i sindaci e per gli amministratori locali in caso di condanna penale.
Ha valore retroattivo e prevede, anche a nomina avvenuta regolarmente, la sospensione dalla carica se la condanna avviene dopo la nomina del soggetto in questione. Per coloro che sono in carica in un ente territoriale basta anche una condanna in primo grado non definitiva per l’attuazione della sospensione, che può durare per un periodo massimo di 18 mesi.
Anche in questo caso, molto è già stato detto e scritto sulla questione, e non è semplice trattare l’argomento senza incorrere nel rischio di fare demagogia, ma purtroppo ancora una volta il problema sollevato dai promotori è in qualche modo legato alla riforma dell’ordinamento giudiziario.
Infatti il problema della cd. “giustizia a orologeria” da più fonti e in più occasioni sollevata non è del tutto priva di legittimità, e colpisce le più diverse formazioni politiche.
Il rischio che il Processo possa finire per essere usato con lo scopo di screditare ed eliminare un concorrente politico non è poi così remoto, soprattutto in tempi nei quali i processi vengono celebrati sulle pagine dei giornali prima che nelle aule giudiziarie, senza che a ciò ponga particolare rimedio il requisito della definitività della condanna.
Uno dei più nefasti effetti della legge in questione è stato anche l’immobilismo che ne è derivato: soprattutto a livello locale nessun amministratore si sente più disposto ad assumere decisioni, apporre firme, per scelte che in caso di errore potrebbero esporlo a condanne in grado di compromettere la sua vita politica (il caso più lampante è la legge sugli appalti).
Per una miglior comprensione del problema occorre però mantenere il giusto distacco e uscire dall’immaginario collettivo del politico “brutto e cattivo per vocazione o per mestiere”, perché la questione riguarda anche quei rappresentanti corretti che si devono assumere la responsabilità di decisioni che potrebbero avere risvolti inattesi o che accollano loro una responsabilità cd. oggettiva (ossia riconducibile alla loro persona in virtù del ruolo da essi ricoperto quanto alle conseguenze, ma non per fatti effettivamente da loro posti in essere).
Il Sì cancellerebbe l’automatismo: si restituirebbe ai giudici la facoltà di decidere, di volta in volta, se, in caso di condanna, si debba applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici.
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In conclusione, i quesiti sottoposti al voto popolare sono di innegabile rilievo anche se non tali da consegnare, in caso di vittoria dei Sì, una riforma organica della Giustizia.
Tuttavia il dato oggettivo del notevole afflusso di cittadini alla raccolta delle firme, effettuata la scorsa estate, è già di per sé sintomatico di quanto quei quesiti rappresentino l’esigenza di cambiamento che anima le persone, laddove ancora una volta il legislatore ha invece trascurato di farsene carico.
avv. Letizia Catelli
Membro del Consiglio Direttivo Eunomis